Riflessioni sulla mia terra


Mimmo Ciccarese

In biologia, la resilienza è la capacità di un ecosistema di ristabilire una condizione di equilibrio dopo uno shock ecologico per reagire alla perdita imprevista delle sue risorse; in altri termini, si può definire come la manifestazione con cui un sistema ecologico è in grado di riadattarsi, rinnovandosi, quando è sottoposto a una lacerazione dovuta a cause di diversa entità.
Si parla di resilienza, ad esempio, quando si esaminano le problematiche riferite a deforestazione o desertificazione oppure ad altri eventi calamitosi, sbalzi termici o uragani.
Con tale termine si contengono, inoltre, i caratteri della sensibilità, della vulnerabilità e del rischio, definizioni già ben adottate dall’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) o dall’IPPC, il gruppo intergovernativo di esperti per studiare cause ed effetti dei cambiamenti climatici.
In particolare, per sensibilità s’intende proprio un “area in cui devono essere adottate misure speciali per proteggere gli habitat naturali che presentano un elevato livello di vulnerabilità”.
Come accade per l’uomo, infatti, quando è in grado di autoregolarsi (omeostasi), attraverso strategie semplici o complesse o quando gli si manifesta addosso il peso di una decadenza, anche molte specie vegetali tendono fisiologicamente a recuperare nel tempo la loro capacità di rigenerarsi.
Piante e animali, sono in grado attraverso tutti i possibili processi cellulari di superare o venirne fuori, se non addirittura rafforzati, da un eventuale default ecologico, salvo che esso non sia proprio decisivo.
L’uomo è in grado di ottimizzare la sua capacità di resilienza o di riconciliare il suo rapporto con la Terra ma spesso sa anche allontanarsi dalla sua origine quando alcune scelte diventano insostenibili.
Un territorio diventa dissimile, quando ad accendersi è la fiamma del profitto economico, le crisi insuperabili o quando non si è in grado di riconoscerne la qualità e la purezza di un paesaggio.
Nella mia terra, troppo spesso, si definisce il bosco o la campagna con comoda e sprezzante indifferenza, come un’entità geografica che divide gli spazi universali da quelli naturali.
Gli spazi che le comunità salentine chiamano ”fore” è un valore riconosciuto al di là delle cinte murarie e dei paretoni messapici, il cui valico era considerato come una nuova esperienza, uno stupore di stagione e un anelito di sopravvivenza; il pendolarismo rurale era quasi una fuga, un attimo di smarrimento tra macchie e ulivi per rinvenirsi poi al proprio focolare prima del calar del sole.
Lo spazio, inteso, invece come fenomeno antropico, risultato di espansioni e alterazioni innaturali, non potrà mai essere appagante per l’uomo naturale. Con l’antropizzazione si configurano, si manipolano, si modificano sempre più spazi ordinari in favore di aree artificiali con una monotonia ossessiva senza precedenti. Per fornire un termine di paragone, circa la velocità di perdita di suolo, ogni giorno scompaiono circa 30 ettari di superficie, che corrisponde ad un consumo pari l’intero agro di Lecce (10.600 km/q) o di Nardò (11.000 km/q) in un solo anno.  Per il ripristino naturale di un solo centimetro quadro di terra perduta con l’erosione e l’agricoltura intensiva occorrono un secolo di sedimentazioni. L’analisi del consumo di suolo e l’indagine dei recenti censimenti ISTAT confermerebbero la Puglia, come una delle prime regioni ad alto tasso di urbanizzazione e di abbandono agricolo.
Il rapimento di altri spazi verdi, vedute rare che gli stati nordici ben disciplinano, ci fanno sentire figli di un’Italia minore; sarà questa l’espressione di un’ennesima questione meridionale, di un’agricoltura in declino e non solo per cause ecologiche?
Oggi, purtroppo, la società rurale subisce l’esilio di un territorio in cui lo sfratto dell’agricoltura si ripresenta puntualmente come un olocausto forzato, decretato spesso, dall’urgenza di tutelare altre occupazioni.
È proprio questa diminuzione che arricchisce l’affezione e la smania di tutelare un paesaggio, rafforza il legame a una terra, risolleva trincee e fa sbocciare gruppi spontanei di tutela dell’ambiente, forum di discussione come virgulti possibili di rinnovamento.
Come il torace di un santo, la mia terra è più volte ferita, è come un cuore generoso senza ormai spazi da pugnalare i cui ulivi sono una silente esplosione del proprio seme. Alberi secolari, spesso divelti, essenze dal valore ambientale senza precedenti, patrimoni dell’umanità spesso rassegnati al loro distacco, le cui propaggini sono aromi e riflessi di antiche lotte contadine già dimenticate.
Il Salento è perciò, anche un’incantevole penisola di resilienza, dove la difesa di una comunità si offre come caldo nido di civile convivenza o riparo di moltitudini botaniche fra cui è piacevole smarrirsi.
Ogni territorio si propone con un nobile dovere: la difesa del paesaggio descritto con l’art. 9 della nostra Costituzione, la cura e la conservazione dell’ecosistema e del bene collettivo se s’intende realmente alleviare il grave fenomeno della desertificazione e dei cambiamenti climatici.
Eppure non può essere solo il clima a mutare: da un pensiero di M.Ghandi,  oggi “dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere” e senza troppe domande dovremmo riprendere coscienza sul ruolo vitale delle piante, perché il disfacimento dell’ecosistema non è una faccenda virtuale, ma è qualcosa di concreto e di misurabile. 
Protezione e diffusione degli alberi, quindi, importanti simbionti dell’uomo, espressione di ricombinazione tra terra e cielo, celebrazione quotidiana da condividere il cui strappo è un discriminante segnale d’inciviltà che farebbe perdere porzioni di cultura, prestigio ambientale, ricchezza e biografia di un popolo.
L’auspicio per il nuovo anno si apre, quindi, con un semplice gesto che estrae una metafora dagli alberi: questo è il tempo in cui si dovrebbe aggiungere l’affezione verso ogni essere naturale per ridare quello che è stato sottratto e riconsegnarci con la dovuta dolcezza alla “nostra” Terra.