Stupendo volume quello dedicato al grande Dinu Adamesteanu, archeologo rumeno naturalizzato italiano, il cui sottotitolo è Dalla Dobrugia sul Mar Nero alla Siritide sullo Ionio (Taranto, Scorpione editrice, 2012, pp. 170).
Il
volume è in-4° tagliato in forma quadrata, impresso a Mottola dalla Stampa Sud
su finissima carta patinata 100 gr. La coperta, di un bianco immacolato, è
cartonata rigida; la sovracoperta è nera con caratteri moderni stampati in
bianco, rosso e ocra. Nel colophon che, com’è abitudine contemporanea, appare a
p. 4 piuttosto che all’ultima, e che è nel verso del frontespizio, c’è scritto:
«Testi e immagini: diritti riservati della Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Basilicata./ Traduzioni: dott.sa Teresa Bosco, dott.ssa
Hélène Claude Francès, dott.ssa Silvana Gombolò./ Grafica e impaginazione:
Angelo R. Todaro».
La
giustifica del frontespizio è: «A cura di Salvatore (Rino per gli amici) Bianco
e Antonio De Siena/ Présenté par Salvatore Bianco et Antonio De Siena.// Dinu Adamesteanu/ L’Uomo e l’Archeologo/
Dalla Dobrugia sul Mar Nero alla Siritide sullo Ionio// L’Homme et
l’Archéolgue/ De la Dobrugia sur le Mer Noire à la Siritide sul la Mer Ionienne».
Dalla
lettura del frontespizio si evince chiaramente che si tratta di un volume
scritto in italiano e francese, patrocinato dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali (Direzione della Basilicata), dalla Regione Basilicata e da
Herakleia – Museo Archeologico Nazionale della Siritide, Policoro.
Ricco
l’indice degli interventi con l’apertura della Premessa di Antonio De Siena, che fu allievo di Adamesteanu, il cui
ricordo del proprio Maestro è quanto mai toccante.
Scrive: «Ci sono immagini che si sovrappongono, mai uguali, atteggiamenti, espressioni, aneddoti, esperienze comuni che si sono fissate nella mente e che ritornano di continuo, anche a distanza di anni. Lo sguardo che diviene vago, pensoso, assente. Il bisogno di ascoltare in silenzio brani suonati con il flauto di canne. Il piacere di bere un bicchiere di grappa di prugne mandato dai familiari dalla Romania. Il tutto è unito sempre da un sorriso disarmante che ti accompagna anche nei momenti di un suo imprevisto rifiuto./ Di Adamesteanu, della sua mite e autorevole presenza conservo un grato e tenero ricordo. A lui mi sento legato da un affetto quasi filiale. […] Per lui provo sentimenti di sincera riconoscenza per il rapporto che ha voluto si instaurasse tra noi due, per quanto ha fatto e principalmente per tutto quello che nel lungo periodo mi ha insegnato. […] Sapeva rendere le tematiche della ricerca archeologica coinvolgenti e le comunicava usando parole molto semplici. Ogni argomento lo affrontava con leggerezza, ma con il sostegno di un rigoroso metodo scientifico, e sempre con approcci multidisciplinari. Il dubbio era l’elemento costante di ogni argomento in discussione e portava ad ampliare sistematicamente tutti gli incontri ed i dibattiti. […] La massima attenzione l’ha data sempre al terreno e alla conoscenza delle fonti letterarie antiche. È stato un grande organizzatore, capace di stimolare entusiasmo e di coinvolgere tutti i suoi collaboratoti. Lo prova la quantità di studi e rapporti di scavo a carattere collettivo. […] Non amava lavorare da solo, per lui il confronto, la partecipazione collettiva erano componenti essenziali per il buon esito della ricerca, per il raggiungimento degli obiettivi» (pp. 7-8).
Scrive: «Ci sono immagini che si sovrappongono, mai uguali, atteggiamenti, espressioni, aneddoti, esperienze comuni che si sono fissate nella mente e che ritornano di continuo, anche a distanza di anni. Lo sguardo che diviene vago, pensoso, assente. Il bisogno di ascoltare in silenzio brani suonati con il flauto di canne. Il piacere di bere un bicchiere di grappa di prugne mandato dai familiari dalla Romania. Il tutto è unito sempre da un sorriso disarmante che ti accompagna anche nei momenti di un suo imprevisto rifiuto./ Di Adamesteanu, della sua mite e autorevole presenza conservo un grato e tenero ricordo. A lui mi sento legato da un affetto quasi filiale. […] Per lui provo sentimenti di sincera riconoscenza per il rapporto che ha voluto si instaurasse tra noi due, per quanto ha fatto e principalmente per tutto quello che nel lungo periodo mi ha insegnato. […] Sapeva rendere le tematiche della ricerca archeologica coinvolgenti e le comunicava usando parole molto semplici. Ogni argomento lo affrontava con leggerezza, ma con il sostegno di un rigoroso metodo scientifico, e sempre con approcci multidisciplinari. Il dubbio era l’elemento costante di ogni argomento in discussione e portava ad ampliare sistematicamente tutti gli incontri ed i dibattiti. […] La massima attenzione l’ha data sempre al terreno e alla conoscenza delle fonti letterarie antiche. È stato un grande organizzatore, capace di stimolare entusiasmo e di coinvolgere tutti i suoi collaboratoti. Lo prova la quantità di studi e rapporti di scavo a carattere collettivo. […] Non amava lavorare da solo, per lui il confronto, la partecipazione collettiva erano componenti essenziali per il buon esito della ricerca, per il raggiungimento degli obiettivi» (pp. 7-8).
So che la citazione è alquanto lunga (lo saranno anche le altre) ma, francamente, il conoscere da vicino le qualità umane di un grande archeologo come Dinu Adamesteanu, per di più trasmesse da uno dei suoi allievi più cari, è anche per me qualcosa di emozionante. A dire la verità ci sarebbero ancora degli altri passaggi relativi al ricordo di De Siena, ma mi fermo qui per rispetto del lettore.
L’ambasciatore
di Romania in Italia, Rasvan Rusu, nel testimoniare il suo saluto – Ricordo di un maestro – ringrazia il
popolo italiano per avere dato ospitalità a un emerito scienziato rumeno, e
scrive: «Dinu Adamesteanu ha vissuto una vita per l’archeologia, scoprendo con
dedizione il fascino degli elementi che hanno sulle dinamiche della società
umana. Ha riportato alla luce pezzi inediti di storia come la “Porta di
Siracusa”, citata negli scritti dello storico antico Polibio» (p. 14).
Dal
canto suo il direttore dell’Accademia di Romania in Roma, prof. Mihai
Barbulescu, nel suo intervento, In
ricordo del Maestro Dinu Adamesteanu, scrive: «Dinu Adamesteanu arrivò a
Roma come borsista sul finire del 1938. Dopo l’inizio della guerra, Adamesteanu
fu uno dei pochi romeni rimasti in Accademia. […] Nel 1942 Dinu Adamesteanu fu
nominato bibliotecario dell’Accademia di Romania. Grazie a lui la biblioteca si
salvò e fu mantenuta aperta, mentre le grandi biblioteche degli istituti stranieri
a Roma, della Germania, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, del Belgio e
dell’Olanda restavano chiuse» (pp. 18-19).
Alle
pp. 21-61, gli archeologi proff. Antonio De Siena e Liliana Giardino tracciano
una lunga bio-bibliografia (aggiornatissima) del loro Maestro (anche la
Giardino fu sua allieva), partendo dal suo anno di nascita, a Toporu nel 1913
fino all’anno della morte. Lo ricordano così: «Dinu Adamesteanu muore a
Policoro (Matera) il 21 gennaio 2004 e la sua scomparsa provoca un’ampia
reazione nel mondo scientifico. Accanto ai moltissimi articoli che ne comunica
la scomparsa sulla stampa nazionale e internazionale, sono altrettanto numerosi
gli omaggi tributati, in forme diverse, alla sua figura di studioso e di uomo.
La Scuola di Specializzazione in Archeologia Classica e Medievale
dell’Università del Salento e il Museo Archeologico Nazionale di Potenza
vengono denominate con il suo nome» (p. 59).
È
oggi un gran bell’onore sapere che queste due grandi istituzioni scientifiche
di Lecce e di Potenza portano il nome di uno dei più illustri scienziati
archeologi del XX secolo.
Ricco
di notizie inedite, di scoperte archeologiche e di esperienze di viva umanità,
è il saggio di Salvatore (Rino per tutti noi) Bianco, altro allievo di
Adamesteanu. Bianco è stato per anni il direttore del Museo di Policoro,
fondato proprio dal grande archeologo nella città lucana dove per molto tempo
ha vissuto e dove lì è morto e sepolto. Già dall’incipit del suo saggio, Bianco rivela il pathos che sente e che
esterna per il proprio Maestro. Scrive:: «Il carisma e il fascino personale non
comuni, la profonda umanità ed affabilità in uno sguardo di viva intelligenza,
l’antesignano spirito europeista erano, tra i tanti, i tratti essenziali
dell’Uomo e dello scienziato Dinu Adamesteanu, che con un “colpo di fulmine” ha
colpito tanti di noi nel momento del primo incontro» (p. 62). Ma è soprattutto
nel descrivere il percorso formativo di Adamesteanu che Bianco rivela una
conoscenza peculiare della biografia scientifica del suo Maestro, a partire
dalla sua prima infanzia a Toporu in Romania, per arrivare fino al suo forte
impegno archeologico in Basilicata. Bianco rivela particolari inediti della
vita del grande archeologo, tra questi, uno molto interessante per chi qui
scrive, è la sua amicizia col medico Rocco Mazzarone, grande amico e sodale di
Rocco Scotellaro, il poeta sindaco di Tricarico, autore de L’uva puttanella, purtroppo già morto quando Adamesteanu arrivò in
Basilicata. C’è un passaggio del saggio di Bianco che vale sottolineare perché,
al contempo, è intriso di amore per la Basilicata e di nostalgia per il grande
archeologo. Scrive Bianco: «La Basilicata di quegli anni diviene così un campo
di ricerca privilegiato, dove si rimettevano in discussione la ricostruzione e
le teorie storiche allora in voga sulla colonizzazione della Magna Grecia e sui
contatti tra Greci ed Indigeni. Lezioni non accademiche ma insegnamenti sul
campo, di altissimo contenuto scientifico e didattico, che hanno entusiasmato e
formato tanti giovani archeologi, ancora oggi ricordati quando si rievocano gli
anni della Soprintendenza del “Professore”, la cui regia di Maestro tessitore
dei rapporti umani rimane insuperata. Le continue discussioni sulle tante
problematiche della storia antica della Basilicata, che in quegli anni non
erano così delineate e chiare come oggi, sono state banco di prova per tanti
studenti, che su quei problemi hanno affinato metodi di ricerca e di indagine
sul terreno e delineato il proprio curriculum scientifico» (pp. 94-95).
Nel
suo intervento, Roberta Giunta, docente dell’Università degli Studi di Napoli
“l’Orientale”, ricorda Dinu Adamesteanu a
Ghazni (Afghanistan), scrivendo che egli «ha fornito un importantissimo
contributo agli scavi e alle ricerche condotte a Ghazni, in Afghanistan, dalla
Missione Archeologica Italiana dell’Ismeo. […] Topografo di formazione e nella
piena convinzione che la ricerca archeologica dovesse essere intesa come parte
essenziale di una più vasta ricerca storica Adamesteanu, anche su espressa sollecitazione
di Tucci [Giuseppe, noto orientalista ed esploratore], guardò con occhio
attento al territorio. Attraverso l’osservazione di fotografie aeree e
verifiche sul terreno, egli tracciò una pianta di Ghazni, individuando anche
alcune delle principali fasi della storia del sito, dall’epoca preistorica […]
alla conquista ghasnavide» (pp. 109 e sgg.).
L’attività di Dinu Adamesteanu in
Sicilia è invece il saggio di
Caterina Ingoglia, che scrive dell’impegno scientifico del Maestro nell’isola: «Dinu
Adamesteanu arrivò in Sicilia nel 1949, in condizioni di semiclandestinità. Fu
subito aiutato da Luigi Bernabò Brea [noto archeologo italiano, per noi
pugliesi importante perché, negli anni ’30, in qualità di ispettore del Museo
Nazionale di Taranto, partecipò agli
scavi di Egnazia] che lo coinvolse nell’attività della Soprintendenza alle
antichità di Siracusa, affidandogli, in particolare, gli scavi del muro greco
di fortificazione del Colle San Mauro di Lentini. Durante l’inaugurazione della
mostra “Gela preistorica ed ellenica”, organizzata da Pietro Griffo, allora
Soprintendente alle antichità di Agrigento, fu da questi invitato a lavorare a
Gela, [… dove gli] venne affidata la prosecuzione dello scavo. […] Da quel
momento, l’archeologo rumeno fu coinvolto, per poco meno di un decennio, […]
nell’ambito dell’archeologia “occasionale” urbana […] Divenne così uno dei
“pionieri” di quell’archeologia siciliana che, nei decenni ’40-’60 del secolo
scorso, conobbe un periodo particolarmente fortunato./ La sua straordinaria
personalità, carica di simpatia e umanità, la sua umiltà, la capacità di
coinvolgere e sensibilizzare tutti, anche i non specialisti, lo resero subito
particolarmente amato dalla cittadinanza: tutti lo conoscevano – e tuttora lo
conoscono per fama – con il nome di “Don Bastianu”. Saranno proprio le sue
benemerenze nell’attività di archeologo a Gela che gli permetteranno di
acquisire, nel 1954, la cittadinanza italiana» (pp. 118-119). Ingoglia prosegue
poi descrivendo le varie fasi dell’impegno archeologico di Adamesteanu a Gela,
sottolineando una scoperta scientifica straordinaria per il resto di tutta
l’archeologica italiana ed europea. Scrive: «nel 1951, il Soprintendente Griffo
gli affida anche l’incarico di esplorare tutto il territorio della provincia di
Caltanissetta. Fu questa l’occasione che consentì all’Adamesteanu di
sperimentare in Italia, per la prima volta in maniera sistematica,
l’applicazione, accanto alla tradizionale ricognizione a piedi, di una
innovativa metodologia di indagine topografica, la fotografia aerea.
Numerosissimi sono i siti archeologici preistorici, greci, romani, bizantini
così individuati dall’archeologo […] Il suo interesse per il territorio gli
consentì di identificare pure alcune tra le vie di comunicazione antiche che
collegavano i vari centri tra loro./ Anche nell’ambito delle indagini sul
territorio lo studioso ha, pioneristicamente, posto le basi per diversi nuovi
temi, a tutt’oggi di grande attualità nella ricerca archeologica. Tra tutti, il
più importante per la Sicilia di quei decenni riguarda i centri indigeni, la
loro conoscenza e identificazione rispetto alle fonti letterarie […] il loro
rapporto con le colonie greche./ L’enorme messe di materiali restituiti da
questa alacre attività di ricerca portò nel 1958 all’inaugurazione del Museo di
Gela. Un anno dopo, lo studioso lascerà la Sicilia per trasferirsi in
Basilicata» (pp. 124-126).
Elena
Lattanzi scrive un commosso Ricordo di
Dinu Adamesteanu, un passo del quale è questo: «Sono già passati sette anni
da quel triste giorno, il 21 gennaio 2004, quando ci raggiunse la notizia che
nella casa sulla collinetta di Troyli, non lontano dal “suo” Museo nazionale
della Siritide, a Policoro, era passato dal sonno alla morte Dinu Adamesteanu»
(p. 127). La nota archeologa Lattanzi ripercorre poi il percorso della «sua
vita favolosa» rifacendosi al piccolo libro che lo stesso Adamesteanu aveva
scritto per l’amico Rocco Mazzarone. Ad un certo punto scrive: «A tutti è noto
il suo gigantesco e generoso impegno con cui, coinvolgendo i suoi migliori
collaboratori, archeologi, assistenti, restauratori, fotografi, disegnatori,
operai, ma anche medici e avvocati, a Tricarico e Matera (Rocco Mazzarone,
Mauro Padula, Raffaele e Michele De Ruggeri, Franco Palumbo e gli amici del
Circolo La Scaletta) e anche giornalisti e politici a Potenza (chi potrà mai
dimenticare Gerardo Salinardi e Aldo La Capra?), trasforma una regione
“incognita”, ricostruendone la storia perduta, attraverso la ricerca
archeologica e gli splendidi musei di Policoro, Metaponto, Matera e Melfi e
altri ancora./ Grazie alla conoscenza profonda del territorio lucano, acquisita
prima dal cielo, poi sul terreno, e vorrei aggiungere, grazie all’amore per
quel territorio e ad un raro impegno civile, si batte come un leone per salvare
il patrimonio storico dalle manomissioni dei trattori dell’Ente Riforma prima,
nonché dall’industrializzazione selvaggia poi» (pp. 131-132). Mi piace qui, e
chiedo venia per questa mia debolezza sentimentale, riprendere un passo
autobiografico della Lattanzi, la cui lettura fa immediatamente vedere lo
spessore umano del grande archeologo: «Vorrei ricordare il mio primo incontro
con Dinu, nel Museo di Taranto, dove una sera giocava ad una partita a carte
con i custodi di turno, attendendo Attilio Stazio [altro grande numismatico del
secolo scorso]. Dinu propose subito una gita ad Amendolara, dove Juliette De La
Géniere [archeologa francese] scavava nella necropoli arcaica. Andammo con la
vecchia macchina dell’assistente Indice, che si arrampicava su quelle stradine
polverose. Come tutti ricordo i suoi incontri, sempre cordiali con giovani
archeologi che accoglieva, ma anche con i suoi operai dello scavo e dei
laboratori di restauro dei vari musei, cui riservava particolari rapporti,
derivanti dalla sua esperienza difficile e dalla sua carica umana./ Chi non
ricorda i numerosi pranzi alla fine di ogni scavo […] il suo colorito lessico
familiare, definito “daco-siculo-lucano”? […] Tra i ricordi legati al terremoto
del 1980, mi viene in mente la grande generosità di Dinu, che accolse in casa
sua, a Policoro, per molti mesi, uno degli autisti potentini, rimasto con la
casa danneggiata, Michele Montesano. Un’esperienza lucana per me importante fu
anche quella dei voli con Aldo La Capra, grande “seguace” e amico di Dinu, con
la moglie Lucia. Così furono documentati, in Basilicata e poi anche in
Calabria, tanti siti archeologici, non solo per tutela, ma anche per bellissimi
allestimenti museali. […] Le Soprintendenze archeologiche meridionali, come le
università dove Dinu Adamesteanu ha insegnato, non dimenticheranno le sue
lezioni, le sue ampie prospettive di ricerca, la tutela estesa e continua dei
contesti archeologici, le indagini multidisciplinari sempre più raffinate, la
generosa ospitalità e collaborazione a livello internazionale./ Noi che abbiamo
avuto il privilegio di lavorare accanto a lui in Basilicata, non lo
dimenticheremo» (pp. 132 e sgg.).
Così
Giuliana Tocco Sciarelli ricorda Dinu
Adamesteanu precursore e maestro: «Ho avuto la fortuna di intraprendere la
mia carriera come funzionario archeologo del Ministero per i Beni e le Attività
culturali, nel 1969, presso la Soprintendenza alle Antichità della Basilicata
diretta da Dinu Adamesteanu. [… Come direttore della Soprintendenza alle
Antichità della regione Basilicata] alla testa di un piccolo manipolo di
impiegati, conquistati dalla sua carica umana, si era dedicato alla scoperta di
ciò che il ricchissimo sottosuolo della Basilicata aveva fino ad allora
conservato dopo aver inquadrato in uno scenario ben definito i risultati delle
ricerche e dei rinvenimenti fino ad allora verificatesi, ma rimasti
sostanzialmente inediti. […] Se [al] patrimonio così poliedrico di conoscenze
maturate da Dinu Adamesteanu nella ricerca archeologica si aggiunge una profonda
conoscenza della storia e delle fonti antiche acquisita […] si può ben
comprendere come nel giro di pochi anni la ricognizione in Basilicata, regione
fino ad allora indagata solo sporadicamente, fosse stata coronata da un
successo incredibile.. […] Il lavoro capillare di ricognizione aveva portato
alla scoperta e all’indagine di innumerevoli siti indigeni lungo le vallate
dell’Agri, del Sinni, del Bradano e del Basento arrivando sin nelle aree più
interne e più impervie ai confini con la Campania, dove era già scoperto
l’insediamento lucano di Serra di Vaglio e del vicino ricchissimo santuario
delle Mefite e Rossano di Vaglio, mentre, ai confini con la Puglia lungo
l’Ofanto, venivano portate alla luce le ricchissime necropoli daunie del
melfese. […] La grande liberalità e generosità del carattere di Dinu
Adamesteanu [… lo avevano spinto a coinvolgere i maggiori studiosi di
archeologia e della storia della Magna Grecia e innumerevoli giovani archeologi
provenienti da tutto il mondo nella conduzione delle campagne esplorative sia
in animate discussioni sulla scorta dei continui straordinari rinvenimenti. […]
Non potrò dimenticare il mio stato d’animo, mentre dalla splendida Firenze […]
mi trasferivo a Potenza. Quel piccolissimo treno, che da Salerno mi avrebbe
portata in Basilicata, si insinuava attraverso la spettacolare gola di
Romagnano, svelandomi un paesaggio severo […] A quel tumulto di sensazioni che
si agitavano dentro di me tra la novità e l’incognito si aggiunse la sorpresa
di trovare ad attendermi, nella piccola stazione, il Soprintendente in persona,
Dinu Adamesteanu, con un gran fascio di fiori in mano. In quel modo immediato e
spiazzante di manifestare il suo pensiero concretamente, mi esprimeva la gioia
di avere finalmente un archeologo, sia pure giovane e inesperto, ad affiancarlo
nelle straordinarie imprese e nelle frenetiche attività che aveva condotte fino
ad allora da solo. […] Poco dopo il mio arrivo ero già incaricata della
direzione di campagne di scavo […] Sedendo al suo fianco nelle commissioni del
Provveditorato alle Opere Pubbliche, […] imparai già allora a mettere in
pratica le procedure dell’archeologia preventiva che solo molti anni dopo sono
divenute prassi consolidata in tutto il territorio nazionale e solo in anni
recenti è stata regolata da norme di legge. […] I risultati sorprendenti
dell’attività di ricerca così come il riordino dei materiali provenienti dai
vecchi scavi aveva spinto Adamesteanu […] alla realizzazione di nuovi spazi
meseali, concepiti non solo come luoghi di raccolta e di conservazione dei
materiali, ma soprattutto come luoghi di incontro e di studio, di divulgazione
e di promozione culturale. […] Con grande generosità mi furono inculcati dunque
da Dinu Adamesteanu quegli insegnamenti che sono rimasti basilari nella mia
formazione e preziosi negli anni nei quali, a mia volta, ho dovuto assumere la
direzione di una Soprintendenza.» (pp. 136 e sgg.).
Marcello
Tagliente scrive un Ricordo di un maestro
e di un’amicizia, nel quale stigmatizza l’amore per colui che gli ha
insegnato ad amare l’archeologia. Scrive: «Dinu Adamesteanu è stato il mio
maestro, non solo di topografia e di archeologia della Magna Grecia, ma
soprattutto un maestro di vita. La sua umanità, la sua capacità di far sentire
tutti partecipi di un progetto sono stati i capisaldi su cui ha cercato di
condurre la mia professione». Tagliente, ancora oggi, continua a chiamare
Adamesteanu “Professore” e con commozione gli piace ricordarlo quasi come se
fosse un suo secondo padre «sempre attento alle mie difficoltà, sempre disposto
ad ascoltare. […] Lui ha avuto fiducia in me e di questo non finirò mai di
ringraziarlo» (p. 146).
Interessante
è poi la testimonianza di Joseph Coleman Carter – Dinu Adamesteanu in America –, che scrive: «Lo conobbi al settimo
convegno a Taranto sulla chora nel
mondo coloniale. Fu il mio primo convegno. Ero appena arrivato in Italia con
una borsa Fullbright per scrivere la mia tesi sulla scultura in pietra tenera a
Taranto. Rimasi molto colpito dalle scoperte nella chora di Metaponto e soprattutto dall’entusiasmo di Adamesteanu.
[…] Dinu con il suo spirito e calore umano era al centro di queste riunioni e
ci conquistò subito e non è un caso che alcuni di noi siano rimasti nel sud
d’Italia a lavorare». Dopo aver ripercorso i periodi d’incontro archeologico
con il “professore”, Carter si dichiara felice di aver organizzato assieme a
lui, negli Stati Uniti, una mostra sponsorizzata dal National Endowment for
Humanieties [il Cnr statunitense] «sulla ricerca archeologica nelle zone di
Metaponto. Si chiamava “Ancient Crossroads” e Dinu venne come visiting professor insieme al suo
protégé rumeno Alexandre Simenon Stefan, e rimase a casa nostra per sei
settimane. […] La mostra fu un grande successo. Lui aveva contribuito
all’allestimento con vari suggerimenti. […] Penso che sia stato contento della
sua avventura americana. Alla fine della sua visita consigliò me e le autorità
dell’Università di creare un Istituto di archeologia classica. Ora l’Istituto
ha compiuto 33 anni, con progetti sulla Magna Grecia e sul Mar Nero» (pp. 152 e
sgg.).
L’ultima
testimonianza in volume – L’attività di
Dinu Adamesteanu presso l’Università di Lecce – è quella di Francesco
D’Andria, ordinario di archeologia presso l’Università del Salento, il quale la
introduce riportando un profilo tracciato dall’accademico dei Lincei prof.
Cosimo Damiano Fonseca al tempo (1983) in cui Dinu Adamesteanu «concludeva la
sua attività accademica a Lecce dove aveva formato tanti giovani archeologi,
insegnando che la ricerca deve sempre avere un riscontro nella capacità di
trasferire i risultati nel tessuto sociale, per contribuire al suo sviluppo.
Oggi i suoi allievi dell’Università di Lecce (Rino Bianco, Antonio De Siena,
Marcello Tagliente, Liliana Giardino, Maria Teresa Giannotta, Attilio Tramonti
e altri) ricoprono ruoli importanti nelle istituzioni di tutela e di ricerca./
A Lecce Adamesteanu già nel 1971 era stato chiamato a tenere l’insegnamento
prima di Etruscologia e Antichità italiache e poi di Topografia dell’Italia
antica […] All’Università di Lecce, grazie al suo impulso, cominciarono a
crearsi strutture che permettevano anche all’Università di partecipare
attivamente alla ricerca sul territorio salentino con risultati che pongono
oggi con forma il tema del ruolo di quest’aerea nei più ampi fenomeni della
colonizzazione greca in Occidente e dell’interazione con le culture indigene
che segnavano i paesaggi dell’Italia meridionale. […] Ripercorrendo la storia
di sviluppo del settore archeologico a Lecce, rafforzato dalla creazione di
tanti innovativi Laboratori, la figura di Dinu Adamesteanu appare sempre in
filigrana, richiamando alla memoria il suo inconfondibile accento, rumeno ma
anche siciliano, e ricordando a tutti noi che la nostra opera ha senso solo se
messa al servizio della comunità» (pp. 157 e sgg.).
Imponente
è l’apparato iconografico, le cui referenze sono alle pp. 166-167, con immagini
che testimoniano il percorso dell’intera vita dell’illustre archeologo.
Mi
sia concesso infine di ricordare Dinu Adamesteanu per il suo interesse
scientifico e umano anche per la nostra regione, da lui esternato nel convegno
“Salento Porta d’Italia” (Lecce, 27-30 novembre 1986), dove lesse il saggio Le origini della civiltà iapigia (in Atti del Convegno Internazionale Salento
Porta d’Italia, Galatina, Congedo Editore, 1989, pp. 75-84), nel quale
scrive: «L’unità della civiltà iapigia dura dalla seconda metà del X secolo a.
C., per tutto il successivo. Intorno agli inizi dell’VIII secolo a. C.
comincia, invece, a delinearsi una prima differenziazione culturale tra le due
estremità della Puglia: il Salento e la Daunia./ Infatti mentre il primo
comincia a riprendere i contatti con il mondo greco (Corinto, Corcyra), in una fase precoloniale, cui
si aggiungono quelli con l’opposta sponda albanese, la Daunia continua ad
intrattenere fitti rapporti di scambio con i popoli dell’opposto sponda,
nell’ambito del medio ed alto Adriatico (Dalmati, Liburni, Histri)./ Infine,
solo molto più tardi, nel pieno VI secolo a. C., anche la parte centrale della Puglia,
la Peucezia, mostrerà caratteri culturali propri, completando la tradizionale
ripartizione della regione in Messapia, Peucezia e Daunia».
di Maurizio Nocera